Due giorni fa ero al telefono con mia madre, a un certo punto lei mi fa:

“sai chi ho sentito la settimana scorsa? Sabrina… te la ricordi, Sabrina?”

“ma chi, quella di San Casciano?”

“Lei, si! La nipote del maestro, ti ricordi…”

“si, mi ricordo.”

E’ una mezza bugia; non mi ricordo praticamente niente di Sabrina. Credo di averla vista due volte in vita mia.

Nipote di un anziano maestro in pensione della Val di Pesa che usava affittare la vecchia casa di mio nonno per le vacanze estive, lei ogni tanto veniva al paesino a trovare i nonni nel loro buen retiro montagnolo; lei, e sua sorella (o cugina, che ne so) Chiara, una ragazzina di cui ricordo solo un caschetto di capelli biondo opaco, talmente sferico da far vergognare Rita Pavone.

Io ero un bambino timido, loro erano adolescenti: ci parlavo per niente? Boh. Fra l’altro, Chiara non l’ho mai più vista: per quel che ne so, potrei essermela sognata.

Sabrina… Sabrina invece…

per puro caso l’ho incrociata di nuovo, dopo anni: morti i nonni che venivano a passare l’estate al fresco, un giorno cedette all’invito di mia zia che ci teneva tanto a rivederla e venne una domenica a pranzo da lei. Non ricordo che anno fosse, ma ricordo che mangiammo all’aperto, nell’abetina sotto casa, al grande tavolo rustico che mio zio aveva costruito sotto gli alberi per i pranzi in famiglia.

Ma quegli abeti sono stati abbattuti da un pezzo, e già anni prima il tavolo era stato eradicato perché le gambe piantate nel terreno erano marcite: ma soprattutto, all’epoca di quel pranzo mio nonno era ancora vivo e in salute. Insomma, parliamo al massimo dell’estate del duemiladue. Una vita.

Di quella giornata non ricordo niente, se non che lei era bellissima. E quando dico che non ricordo niente, intendo dire che non mi ricordo NEMMENO come era fatta lei; che taglio avesse la sua bocca, se i capelli fossero ricci, di che colore fossero gli occhi. Ricordo solo che, quando venne a salutarmi prima di partire, io me ne uscii con un ridicolo “eehh alloraaaahhh…. speriamo di rivederci presto!” e poi, più niente. La vita la inghiottì di nuovo.

“mi ha detto che a Ottobre era venuta su, ad Amsterdam”

“ma va”

“si, si! E’ venuta con un’amica; io gliel’ho detto: ‘Alessandro è su da tre anni, ad aver saputo che andavi ti davo il suo numero…’ Ma io che ne sapevo, che veniva. Quindi niente, pazienza.”

“eh, vabbè dai: in fondo non ci vediamo da almeno quindici anni, che ci dobbiamo dire poi…”

“eh, vedrai! Lei ora ha, ..cinquanta?… cinquantadue anni, vedrai… “

“eh! Davvero?…”

“capirai! E’ del sessantotto, fai il conto te”

” … “

“dice è venuta su con un’amica, in questo periodo sta girellando abbastanza; mi ha detto che si è pure messa su Facebook, ma non gli garba tanto e infatti si è segnata solo come Sabrina per non farsi trovare da tutti”

“e brava! Ma pensa te…

ma… com’è che fa di cognome ti ricordi?”

Dieci minuti dopo, ho finito di parlare con mia mamma e sono su Facebook; Sabrina… Sabrina… Sabrina….

ci metto meno di un minuto.

La foto profilo è banale; una donna in piumino rosso, due borse a tracolla, borse capienti – da viaggio – per niente ricercate; un paio di jeans. Un paio di occhialoni da sole a nascondere la faccia, ed un sorriso un po’ tirato, con un angolo della bocca che va in su e l’altro che guarda in basso. Uno di quei sorrisi che mi fanno immaginare che cos’è che li tira da dietro: tristezza, una preoccupazione, il pensiero di chissà che.

E’ ancora bellissima.

Osservo questo fantasma che mi guarda dalla foto, e di colpo riconosco tutto: la bocca sottile, i capelli scuri e lisci, il viso sottile, il fisico aggraziato.

Nonostante i suoi cinquantadue anni, è ancora la “ragazza grande” che un giorno mi salutò per sempre, davanti alle scale di mio nonno.

Dietro di lei, una sagoma familiare ed un’insegna: AMSTERDAM ART HOTEL.

Lo conosco, è a manco due chilometri da casa mia.

Ci passo sempre davanti, quando vado a correre verso Houthavens.

E’ successo di nuovo: è passata ancora per un istante nella mia orbita, come una cometa. Stavolta il passaggio è stato talmente rapido che non me ne sono nemmeno accorto.

Ha cinquantadue anni, e mi chiedo come sia possibile: sono così vecchio io, che la ricordo poco più che ragazzina? E ammesso che lo sia io, lei non lo è di sicuro: è identica, identica cazzo, alla stampa che ho in testa. Sovrappongo i puntini, unisco le due immagini e vedo la ventenne e la cinquantenne in una cosa sola, davanti a me. Folle. E ancora non so chi è in realtà.

Ripenso a quel sorriso un po’ triste: che fa, nella vita? E perché è venuta con un’amica? Probabilmente è single. Perché sorride così, perché?

Forse qualcuno, da qualche parte, la chiama “mamma”; magari non viaggia molto.  Oppure invece lo fa spessissimo, e quella che io fraintendo come sciatteria nel vestire è semplicemente una scelta di praticità dettata dall’esperienza; decine di migliaia di chilometri macinati per i cinque continenti mentre, inspiegabilmente, io non sapevo nulla di lei. Una parte di me pensa che non è giusto.

E adesso la sua rotta incrocia la mia per puro caso. Mi imbatto per caso nella sua scia, nel suo piumotto rosso e nel suo sorriso da Gioconda, lasciati indietro come un indovinello a ricordarmi che lei esiste ancora, da qualche parte. Sono arrivato  tardi; lei non è più qui, non passerà di nuovo.

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Ianus

Passeggiatore del mondo, osservatore di pensieri.