Non è un giorno che potrei definire rivelatorio, epifanico. E’ un giorno quasi normale che sto gettando via un po’ alla volta.

Sono fortunato, me lo ripeto spesso; un lavoro che mi lascia troppo tempo libero, un paio di persone che mi piace frequentare e i tuoi occhi che stanno colorando questi ultimi periodi della mia vita. Sono fortunato. E oggi sono anche felice, potrei scrivere di qualunque cosa, di ogni genere, eppure non ho idee. Sono felice e non riesco a concentrarmi su di un’idea. Le idee sfuggono, mi calpestano. Alcune volte le calpesto io. Non fanno rumore quando le calpesti, non fanno rumore quando cadono, non fanno rumore quando divengono tue. Sono idee. Già è dfficile capire cosa sono, figuriamoci se fossero rumorose; staremmo giorni a cercare di capire quale rumore è unito a quale idea. Le idee sono solo idee.

Ogni tanto quando mi chiami la sera sono felice, ma non riesco a dire niente. Le idee si formano nella mia mente e fuggono via subito. Senza nemmeno salutarmi, ma se anche le fermassi sarebbero idee da poche parole; sono una persona asciutta: me l’hanno detto in molte persone. Non ho mai capito cosa significa essere asciutti, ma in genere mi sembrava fosse detto da persone umide quindi sono contento di non essere come loro. Voglio pensare, pensare a te in qualche modo strano, senza finire ancora sugli occhi nonostante la mail su Plato mi sia piaciuta parecchio: leggere il Timeo ieri è stato bello, ero emozionato. Tutto questo è solo perché ti voglio bene, solo perché ogni tanto mi guardi, ogni tanto mi chiami. Non so cos’è l’amore, non l’ho mai saputo o forse sì, ma non importa. Anche se questo non fosse amore io so che mi fa stare bene. Sarà un’illusione. Ne avremo altre in futuro, spero solo siano sempre così. Allora vediamo cosa posso pensare. Come posso pensare a te. Mi sovviene subito l’idea di volpe, proprio l’animale del bosco, bello, elegante, ordinato (non ha nulla da riordinare, ma è come se lo fosse, non credo esistano volpi caotiche; gli animali sanno sempre cosa fare), sicuro di se, svelto, scaltro. E potrei anche continuare, ma credo che non avrebbe senso. Mi ha fatto bene parlare di Platone, anche se non ho toccato il suo discorso: non ci ho messo mano, non mi sembrava il caso. Lo farei volentieri. Non riesco a parlare di volpi e di Platone in così poco tempo creando idee che possano essere almeno in parte portatrici di logica. Quindi non è il caso, per me, scrivere qualcosa sulla volpe. Le vedo già dappertutto, meglio non iniziare a vederle anche tra le lettere.

Ti ho sognata anche stanotte. Ti sogno da due mesi, come è possibile? Io ogni tanto credo solo di aver pensato di averti sognata, eppure ne sono così certo.

Fiore...

 La notte ti vedo. Tutte le notti. Se una persona, anche una della quale mi fido ciecamente, mi dicesse che sogna per due mesi la stessa cosa io non ci crederei. Eppure non posso non credere a me stesso. Non sono ancora così pazzo da dubitare delle sensazioni e dei sentimenti: quello sarà il prossimo passo: uno dopo l’altro cadrò nell’oblio, nella nevrosi totale. Sarò schizofrenico fino all’osso, anzi, fino ai due ossi. Sono felice, per questo sogno; non ne sono certo, ma se lo scrivo sembra più veritiero. Oggi guidavo il mio vespino rosso, con la tracolla appoggiata sulla spalla, il caschetto in testa e la sigaretta all’angolo della bocca. Ero isolato dal mondo; anche se mi avessero sbattuto a terra o qualcuno mi fosse venuto incontro con una macchina non mi sarei accorto di nulla.

Io e il mio vespino rosso.

La sigaretta a indicare il tempo che si consuma, l’aria sulle mani ricorda che tutto si muove. Il vespino curvava da solo, io spostavo appena il peso; un po’ a sinistra, un po’ a destra e lui obbediva. Viaggiavo leggero lungo quelle strade che dall’Alabama portano fin lassù nel Tennessee; le medesime strade che mi vedono passare ogni volta che vogliono lasciarmi transitare. I fiori stanno nel cielo, aggrappati a nuvole pesanti che paiono cadere. Di colpo sono nel passato. Un tuono e i petali dei fiori si staccarono. Ma non lasciarono il gambo per smettere di vivere, bensì si lasciarono andare per scoprire cosa si provasse a cadere. E caddero così come le idee: piovendo, goccia a goccia, una dopo l’altra. E questi caddero, ma non a terra, non nel prato. Scelsero altre foglie verdi sulle quali posarsi e così diedero luce alle camelie che danno il nome alla terra che mi ha visto nascere (Camellia state, Alabama).

Le nuvole si spostarono, si mossero per dare vita un po’più in là, solo un po’ più in là. Il presente risuonò con il rumore della mia moto. Era arrivata là dove dovevo arrivare, anche lei non ne sapeva il motivo.

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